Per una ricerca “genere connotata”:
aspetti metodologici di una sfida

Fulvia Signani

Psicologa Dirigente, Azienda Sanitaria locale di Ferrara; Professoressa a contratto Università degli Studi di Ferrara.

Received 12 July 2016; accepted 23 December 2016

Riassunto. La medicina “di genere” o genere-specifica non rappresenta solo una “nuova clinica”, ma l’applicazione di un paradigma trasformativo che combina ricerca biomedica e psico-sociale. Il genere viene descritto nelle due accezioni: dell’identità psicologica, diversa in maschi, femmine o altra identità; e dello status sociale percepito e attribuito. Per una ricerca “genere connotata”, va posta particolare attenzione al gender bias, errori legati al genere, rischio presente in ogni misurazione. La ricerca biomedica sta ri-considerando diversi aspetti: campioni di ricerca; metodo di analisi; la persona malata intesa in modo innovativo nell’assetto delle relazioni sociali in cui è coinvolta; l’attenzione agli stimoli provenienti da una società in continua evoluzione. I metodi di ricerca delle scienze umane sono in buona parte basati sul self-reporting, capacità che può essere grandemente compromessa da diversi aspetti legati al genere. Ci si sofferma quindi su due esempi. Il primo prende in considerazione il ruolo di caregiver, tipico delle donne, che a causa di questo stesso ruolo, spesso diventano a loro volta pazienti. Il caregiver burden, il peso psicologico, viene valutato con alcuni strumenti che, però, non stanno contribuendo a farlo assurgere a problema politico-sociale legato alla struttura della società, quale è. Per ottenere un diverso livello di attenzione, necessiteranno altri strumenti e prospettive di ricerca. Il secondo esempio riguarda la depressione. Ci si chiede se ha fondamento scientifico l’affermazione “la depressione è donna” e vengono messi in discussione gli strumenti di rilevazione. Dai dati sappiamo che le donne sono più propense a manifestare e raccontare sintomi di stato d’animo depresso e accedono maggiormente ai servizi per chiedere aiuto. Per gli uomini, invece, le norme sociali convenzionali portano a nascondere il proprio disagio interiore adottando l’atteggiamento “aspetta-e-stai-a-vedere”. L’approccio neutro, ancora molto presente nei disegni di ricerca, porta a innumerevoli gender bias di struttura e di risultato. Per una ricerca “genere connotata” c’è ancora molto da esplorare.

Parole chiave: ricerca di genere, medicina di genere, paradigma trasformativo, gender bias, alessitimia, caregiver burden, depressione, toughness, wait-and-see approach.

Methodological challenges of a gender-oriented research

Summary. Gender or gender-specific medicine is an emerging clinical discipline that combines biomedical research with developmental psychosocial processes. It encompasses differences between males and females pertaining to both psychological and social aspects. In gender-specific studies, however, the risks for gender bias in measurement should be carefully evaluated, and several aspects are currently under reconsideration in biomedical research, including study samples, methodology, the sick role within the framework of social relations, and the inevitable stimuli imposed by societal changes. Most human science research relies on collection of self-reported data, which may be greatly affected by gender differences. We provide a couple of examples. The first regards the caregiver, typically a woman’s role. Women who fulfill the caregiving responsibilities often experience a high level of burden and psychological distress. Although there are several tools that measure strain related to care provision, none of them contributes to make caregiver burden a crucial political and societal issue of contemporary society. Newer tools and research avenues should be identified to achieve a more comprehensive assessment of caregiver burden. The second example regards depression. The statement that depression is female-specific seems quite unjustified on scientific grounds, and current detection scores or indices have been questioned. Available evidence shows that women are more likely than men to exhibit and report states of low mood, and they access services more frequently than men. Conventional social norms make men more likely than women to deny their symptoms of depression and to mask them with other behaviors, adopting a “wait-and-see” attitude. Many studies still support a gender-neutral approach, which suffers from a varying degree of gender bias influencing the design and interpretation of results. There is much left unexplored in gender-specific medical research.

Key words: gender research, gender medicine, transformative paradigm, gender bias, alexitimia, caregiver burden, depression, toughness, wait-and-see approach.

Introduzione

Numerosi studi dimostrano che uomini e donne sono diversi dal punto di vista biomedico, nell’anatomia, nella genetica ed epigenetica, nel metabolismo, nel funzionamento di recettori, enzimi e proteine, nel livello degli ormoni sessuali e loro effetti, nella prevalenza e sintomatologia di diverse patologie e in molti altri aspetti, afferibili alle differenze sessuali. Ma si stanno studiando differenze tra uomini e donne anche per: percezione personale, sociale, per le competenze e le strategie di adattamento, in particolare alla malattia, così come per ciò che riguarda l’accesso alle cure, nell’essere più o meno soggetti a fattori non medici (Oertelt-Prigione, Regitz-Zagrosek, 2012). Il “genere” è, da un lato, sovrarappresentato (si pensi che la digitazione del termine in inglese porta a 80 milioni di citazioni); si presenta come oggetto di consapevolezza ormai acquisita (Lindsey, 2016); dall’altro, in questo momento storico, il genere è sotto-studiato, anche a causa di problemi metodologici sui quali ci soffermeremo tra breve. Siamo nell’ambito della più ampia problematica di come definire e quantificare la realtà, ricordata recentemente da Marek Glezerman (2016), Presidente dell’Associazione Internazionale della Medicina di Genere. Ci dobbiamo confrontare con la specifica sfida di come valutare la realtà, soppesarla in modo quanti-qualitativo, come ritroviamo ben argomentato da Babbie (2010). In questo consiste la sfida di valutare il “peso” del genere.

Sesso e genere. Due termini da approfondire sempre

Sesso e genere. Due termini spesso sovrapposti e mal interpretati dai mezzi di comunicazione, ma anche, sorprendentemente, dalla letteratura scientifica. Ribadirne le caratteristiche, quindi, è necessario, poiché il loro diverso significato sta alla base della nostra analisi. Sul fatto che il termine sesso sia riferito agli aspetti biologici, morfologici, funzionali, etc. che caratterizzano l’essere uomo e donna esiste da tempo una diffusa condivisione. Il genere, invece, come termine, ha una storia recente e un duplice significato.

I primi momenti di uso del termine genere risalgono agli anni Cinquanta del secolo scorso, grazie allo psicologo John Money e al sessuologo Harry Benjamin, che lo introdussero per descrivere casi di persone con identità sessuali diverse a quelle tradizionali. Il “genere”, in questo caso, venne utilizzato, come peraltro anche oggi succede, in uno dei suoi significati, quello delle categorie personali e sociali di identità, femminilità e mascolinità, o altro orientamento sessuale e di genere, a cui, nel tempo, si sono aggiunti gli studi di specifico interesse della psicologia sulle caratteristiche di percezione, relazione, empatia, competenze psicologiche e sociali, tipiche di maschi e femmine, auto-attribuite da parte dei soggetti, nonché dei vissuti legati a ciò che la società attribuisce loro. Società che “si aspetta” che un uomo, in quanto tale, si comporti in certi modi, e una donna, in quanto tale, in certi altri (Ristvedt, 2014; Signani, 2013). Il “genere” è stato studiato anche dalla sociologia che, grazie anche alla spinta dei movimenti femministi, dagli anni Settanta, ha interpretato il genere come ruolo sociale, comportamento atteso, associato a uno status e condizionato dalle norme sociali che determinano previlegi e responsabilità a seconda dello status di appartenenza. Uno status sociale attribuito, infatti, assegna alla persona una posizione all’interno del sistema sociale che è organizzato in stratificazioni create in base a pregiudizi, stigmatizzazioni, discriminazioni, e sovrastime di potere. Stratificazioni a cui vengono attribuiti minore o maggiore valore sociale1 e di cui donne e uomini risentono. Prova ne siano, come esempi paradigmatici, le preferenze in politica2 e l’attribuzione di fiducia sociale, necessaria per l’ottenimento di prestiti in denaro3. Citiamo in questa sede i principali termini della teoria dei ruoli sociali sessuali e di genere, su cui non possiamo soffermarci, ma che aiutano a completare il quadro concettuale: sessismo (stereotipi negativi legati al sesso di appartenenza, di solito negativo per le donne); patriarcato (struttura sociale in cui dominano gli uomini) e androcentrismo (quando il punto di riferimento di ogni organizzazione sociale è legata al maschio): termini e concetti, molto concatenati tra loro (Lindsey, 2016). Superata la vecchia classificazione limitata al solo fattore sesso, il genere è stato riconosciuto, da parte della Commissione dei determinanti sociali di salute dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, come fattore che determina salute e malattia, solo nel 2008, e con sorprendente silenzio da parte del mondo scientifico, che non ha forse recepito la dirompente novità (Solar, Irwin, 2006).

Medicina di genere: paradigma trasformativo

Il genere viene citato in diverse situazioni, ma per gli aspetti di salute e malattia è declinato, tra l’altro, nella medicina “di genere” o genere-specifica (non dimentichiamo anche gli orientamenti di psicologia, infermieristica, etc. “di genere”), la cui completa applicazione porta a studiare e conoscere le differenze oltre che derivate dal sesso, anche dal genere. La medicina “di genere” non rappresenta solo una “nuova clinica”, ma l’applicazione di un paradigma trasformativo (Mertens, 2007) che combina ricerca biomedica e psico-sociale, con l’attenzione a combattere diseguaglianze e ingiustizie sociali per un rispetto equo del diritto di salute. La forza del paradigma trasformativo sta nel combinare, quindi, sia dati quantitativi, con dati qualitativi, sia l’approccio delle cosiddette discipline della vita, con quello delle scienze umane, nel nome di quella interdisciplinarietà che caratterizza la transizione epistemologica in atto, la quale, attraverso un nuovo meccanismo culturale e di pratiche, può davvero contribuire a migliorare la società (Fitzgerald, 2013).

Il genere nella ricerca biomedica

Annandale e Hunt (2000), nell’analisi su come porre rimedio alle diseguaglianze di genere in vari campi della vita quotidiana, in particolare nella salute e nella malattia, analizzano l’importante evoluzione dei metodi di ricerca biomedica, orientati alla progressiva inclusione del genere. Le Autrici individuano un percorso storico: una fase tradizionale della ricerca, che collocheremo nel periodo in cui la biomedicina considerava la specificità del corpo della donna quasi esclusivamente relativamente all’apparato sessuale e procreativo. Fase che collochiamo temporalmente fino agli anni Novanta del secolo scorso, durante la quale nel mondo scientifico le differenze di genere erano considerate solo in modo implicito e, sui temi di salute e lavoro, valutate a priori come paritetiche tra uomo e donna. Il focus di queste ricerche verteva sull’esclusione o inclusione delle donne e, in modo quasi riparativo, venivano promossi alcuni trial clinici di sole donne (in numero limitato e su indagini decisamente marginali). La fase transizionale dei metodi di ricerca, che collochiamo nel ventennio a cavallo del secolo, è stata caratterizzata dalla crescente individuazione di diseguaglianze trasversali di genere, con enfasi su diversi assi di diseguaglianze: per esempio si iniziò a studiare lo stress legato a ruolo e status sociale, caratterizzati dal genere.

Siamo quindi ai giorni nostri, con un’esplicita attenzione alla dimensione del genere, intesa come essenziale nella ricerca biomedica, come affermano le due Autrici. È un approccio che sta favorendo un cambio di prospettiva della ricerca su genere e salute e vede diversi passaggi: da campioni di ricerca solo-su-uomini o solo-su-donne, a campioni di ricerca che mettono in comparazione i due sessi, considerando anche quanto influiscono le caratteristiche di genere; uomini e donne passano dall’essere considerati individui isolati, a essere parte di una più ampia struttura sociale, costituita da relazioni sociali di genere; da un’attenzione limitata alla combinazione dei ruoli sessuali e di genere (come, per esempio, conciliare impegni di lavoro e di famiglia), a un’attenzione sia alla complessità dei ruoli e delle condizioni, sia all’esperienza della persona rispetto a un determinato ruolo. E infine, da una stagione di errori nel valutare l’effettiva costruzione di genere in vari contesti, alla fase emergente in cui il genere, inteso in modo appropriato come continuamente costruito socialmente, viene valutato nelle sue implicazioni per la salute, con attenzione alle caratteristiche di una società in continua evoluzione (Annandale, Hunt, 2000; Cherubini et al., 2011). La ricerca orientata al genere pare anche si stia abituando a tener conto del fatto che si può incorrere in gender bias4, errori di valutazione che si verificano quando, anche in caso di evidenti differenze, si mantengono comportamenti “ugualitari” tra uomini e donne, oppure quando permangono stereotipi negativi nei confronti, di solito, delle donne, tanto da considerare, in una concezione più o meno consapevolmente androcentrica, l’uomo unico soggetto di riferimento (Risberg, 2009).

Buone pratiche nella ricerca biomedica

Ormai è concetto sottolineato da molti che l’inclusione del genere nella ricerca va oltre la mera sesso-stratificazione dei dati (Bekker, 2003); Nowatzki, Grant, 2011). Gli strumenti di valutazione tarati solo su campioni maschili (sia in clinica, sia nelle scienze umane) possono, oltre che rappresentare loro stessi un gender bias, generare a loro volta gender bias nella misurazione. Esempio di buona pratica è quello della Cochrane organization5 che ha sperimentato tra il 2005 e il 2012 l’attivazione di un gruppo sui metodi di ricerca legati a sesso e genere, con il quale si proponeva di valutare l’applicabilità e qualità dell’orientamento al sesso e genere nella ricerca biomedica, arrivando anche a elaborare una guida per pianificare revisioni sistematiche attente a sesso e genere. I termini di trasformazione e ripensamento dei metodi di ricerca si configurano come le parole d’ordine di un’altra interessante buona pratica, il Gendered Innovations in Science, Health & Medicine, Engineering and Environment Project6: frutto della collaborazione tra Europa e America, attivo nel 2016, finanziato dalla Comunità Europea, l’US Science Foundation e l’Università di Stanford, e diretto da una tra le più autorevoli studiose del genere, Londa Schiebinger, docente di storia della scienza, che coordina workshop internazionali con una sorta di metodo Delphi, per desumere in che modo la ricerca, in particolare biomedica, può ripensare concetti, teorie, priorità, risultati, linguaggio e parametri biomedici delle varie patologie, con attenzione al genere.

Le competenze di genere in salute e malattia: metodi di ricerca delle scienze umane

La valutazione del “peso” del genere chiama in causa le scienze umane. Anche nell’ambito delle scienze umane la declinazione della ricerca al genere si presenta come un processo in divenire. Il fatto di aver trattato per anni l’analisi di identità di genere, la sessualità, la struttura patriarcale della società, ha contribuito a fraintendere l’argomento con il metodo: un conto è analizzare temi legati al genere, un conto identificare le caratteristiche dei metodi di ricerca, davvero attente ai possibili bias di genere.

I metodi a disposizione delle scienze umane vanno dalla ricerca-azione, alla ricerca descrittiva, partecipativa, sperimentale, etnografica, attraverso l’analisi discorsiva, allo studio di documenti e dati d’archivio, di storie orali o scritte, di storie di vita, casi-studio, con strumenti di rilevazione quali interviste, questionari, test e scale di misura (Dey, 1993; Cicognani, 2002; Dallago et al., 2004). Strumenti non ancora modellati tenendo conto del genere: si pensi al problema aperto dell’elaborazione di disegni di ricerca che possano rappresentare in modo ugualitario maschi e femmine e consentano comparazioni congrue, oppure alla necessità di sviluppare una metodologia che riduca l’influenza del condizionamento di chi ricerca e dello strumento usato (Metso, Le Feuvre, 2006; Marshall, Young, 2007). Non dovrà sfuggire che questi metodi, in quanto in buona parte strutturati nella formula “io-ti-chiedo-tu-mi-rispondi o mi-racconti”, necessitano per buona parte della collaborazione attiva della persona che partecipa al campione di ricerca. La persona del campione deve quindi essere dotato/a di disponibilità in generale, e nello specifico, di tempo, disponibile alla relazione (viene messa in campo anche la capacità), alla confidenza e verità, nonché abile nel self-reporting, cioè nell’auto descrizione dei propri pensieri, sentimenti, opinioni.

Nei primi anni Settanta un gruppo di psicosomatisti definì un insieme di caratteristiche di personalità evidenziate in pazienti suscettibili a manifestazioni psicosomatiche, “alessitimia”, dal greco “a-” mancanza, “lexis” parola, “thymos” emozione (Nemiah et al., 1976). Cioè non avere le parole per le emozioni, non riuscire a parlare di emozioni alle altre persone. Una personalità che ha difficoltà a identificare e descrivere i propri sentimenti, e quelli altrui, orientata all’esterno e raramente verso i propri processi endopsichici. Caratteristica che non si può trascurare quando si chiedono competenze di descrizione di stati d’animo. Esiste un test, il Toronto Alexitimia Scale (TAS-20), peraltro validato anche per l’Italia (Bressi et al., 1996), che si potrebbe prestare a molte più applicazioni di quello che avviene. A breve ci soffermeremo su uno dei tanti possibili esempi di metodologia di ricerca da orientare al genere, che può farci ipotizzare esista anche un’alessitimia “di genere”.

Valutare il peso del genere sul caregiver

La persona malata è intesa dalla medicina contemporanea nel sistema di relazioni sociali in cui vive, così da considerare anche chi gli/le presta assistenza. Questa prospettiva ha contribuito a mettere in luce l’importanza del ruolo del caregiver, la persona che si prende cura di pazienti con patologie croniche, di solito femmina, moglie, compagna, figlia, sorella, o addetta remunerata: per questo motivo ne parliamo in termini di genere. Quanto questo ruolo comprometta negativamente la vita delle persone che lo svolgono è facilmente intuibile, ma trascurato in termini politico-sociali7.

Le considerazioni legate al tema del caregiver vengono da campi del sapere diversi dalla medicina, ma possono essere utili per la nostra analisi. Dagli anni Settanta dello scorso secolo il ripensamento sul modo di lavorare ha introdotto il concetto che molte delle risorse che servono per vivere non sono prodotte da attività di mercato, ma dall’autoproduzione, o meglio, dal sistema di welfare, anche familiare, non sempre collegato al mercato. Ciò ha contribuito a far emergere il tema della “cura” (nelle famiglie, ma anche da parte delle istituzioni pubbliche, del mondo del terzo settore, del mercato stesso), che fino a quel momento era risultato tema invisibile. I dati delle ricerche mettono in luce la situazione svantaggiata delle donne, impegnate in pratiche quotidiane di cura, in termini di tempo, preoccupazioni e fatica. Le riflessioni sul lavoro di cura portano a definire sia il fenomeno della “doppia presenza” delle donne, che devono dividersi tra lavoro e famiglia (Chiaretti, 1981), sia il valore del lavoro non retribuito, tradizionalmente attribuito alle donne anche nelle nostre società8. Nel 1974 Oakley pubblicava ‘La sociologia del lavoro casalingo’, dove emergeva rinforzata la considerazione già empiricamente evidente, cioè che il modello di vita di uomini e donne è diverso, ma ancor più, che le organizzazioni di lavoro e sociali, sono segreganti, con aspetti che colpiscono negativamente in modo sistematico le donne.

Gli studi su come le persone usano il tempo confermano tutt’oggi che le donne spendono più tempo rispetto agli uomini in attività non pagate, il che indica che hanno un giorno lavorativo più lungo, un consistente impegno per accudire casa e famiglia, con attività necessarie e spesso costrette dalle circostanze, e meno tempo per il riposo, a detrimento della salute9.

Il ruolo di caregiver di ammalati rappresenta ormai un ruolo necessario per la restrizione, o assenza, di servizi pubblici in questo campo, per il contemporaneo aumento della longevità e per le conseguenti patologie croniche presenti nella popolazione anziana: esso copre oltre il 90% delle cure domestiche assistenziali necessarie ai pazienti cronici adulti (Adelman et al., 2014). La valutazione di quanto pesa questo ruolo, nettamente connotato dal genere, è materia di interesse ancora limitato, forse per l’appartenenza delle persone, sia familiari che addette pagate, a uno status sociale decisamente svantaggiato. Valutare il caregiver burden, il peso del ruolo di chi assiste, assume innegabile importanza se si considera che le persone caregiver diventano, sempre più frequentemente, esse stesse pazienti, per le conseguenze che subiscono sulla salute. Vi sono infatti ricadute in termini sia fisici (si pensi ai problemi osteoarticolari derivati dalla gestione di pazienti non collaboranti), sia mentali, psicosociali, finanziari e di salute in generale, con vissuti di intrappolamento, di percezione di sovraccarico, dovuti al forzato isolamento sociale e, ove non sia attività remunerata, dalle pressioni vissute nell’ambito dell’attività lavorativa remunerata svolta fuori casa, che spesso non considera le difficoltà a conciliare una vita “normale” con le difficoltà di assistenza famigliare. Il caregiver famigliare, collegato alla rete di assistenza familiare, inoltre, può essere spesso coinvolto in veri e propri conflitti familiari, come conseguenza di un certo risentimento, a volte verso il malato o la malata stessa, a volte verso altri familiari non collaborativi (Costanzo et al., 2012).

Per valutare il caregiver burden alcuni ricercatori hanno ideato specifici strumenti, citiamo per tutti Zarit (1980), con il suo famoso test a intervista strutturata; l’Associazione Medica Americana, con un questionario di autovalutazione, il Caregiver Self-Assessment Questionnaire (Epstein-Lubow et al., 2010). Già nel 1992 Braithwaite, nell’affrontare tra i primi il tema del caregiver burden, aveva esaminato criticamente il concetto di peso, denunciando la mancanza di una chiara definizione, di incongruenza tra la sua concettualizzazione e operatività, di un suo uso inadeguato all’interno del paradigma di stress, ma in particolare la sua decisamente marginale rilevanza politica. Adelman et al. (2014), a conferma di come il ruolo di caregiver sia oggetto di trascuratezza, sottolineano come nella più recente versione dell’International Classification of Disease (ICD - 9) non sia prevista una classificazione del peso relativo allo svolgimento di questo ruolo. Siamo lontani da un coinvolgimento sociale su questo tema-problema, per ora relegato a mero livello individuale. Una ricerca mirata su tale argomento sarebbe, oltre che necessaria, urgente.

Valutare il peso del genere nella depressione

Approfondiamo un tema citato poc’anzi: il malessere psichico. Per uno sguardo sommario agli strumenti a disposizione per indagarlo, prendiamo solo un piccolo esempio. Uno dei strumenti di indagine su grandi numeri, adottato per indagini di popolazione, è l’SF-12 (Short Form Health Survey a 12 domande)10, che consente di costruire due indici di salute percepita: uno sullo stato fisico e l’altro sullo stato psicologico, così che, tra l’altro, i dati portano a desumere “quanto è depressa la popolazione”. Ci soffermiamo su questo ultimo aspetto e teniamo conto che viene richiesto il punto di vista personale riguardo la propria salute, valutandola avendo a disposizione le definizioni di eccellente, ottima, buona, insufficiente o cattiva, e l’autovalutazione delle proprie condizioni psicologiche, riportandole in un questionario (cartaceo, online o a intervista telefonica). La persona deve poi riferire se ha limitazioni date da una non buona salute, per esempio spostare una tavola, giocare a golf (!), salire diverse rampe di scale. Si procede quindi chiedendo se nelle ultime quattro settimane11 la persona si è sentita depressa o ansiosa, al lavoro o in famiglia, se ha realizzato o meno di ciò che avrebbe desiderato, e così via, e se questo viene valutato, dalla persona intervistata, come risultato di qualche problema emotivo. Questa considerazione, oltre a ricordare il tema dell’alessitimia che già trattavamo, porta con sé il grande quesito se le esplicitazioni di malessere possano avere una specificità di genere. Nel 2013 è stata pubblicata un’importante ricerca su Jama Psychiatry, organo della Società Medica Americana che, oltre a testimoniare che le donne vengono diagnosticate depresse il doppio degli uomini, conferma che sussistono manifestazioni di depressione diverse tra uomini e donne (una recente consapevolezza), ma anche – aspetto al quale stiamo prestando attenzione – disponibilità diverse a testimoniarle. Le donne, per esempio, sono più propense a manifestare e raccontare sintomi di stress, indecisione, ansia, disturbi del sonno, stato d’animo depresso, incapacità di adattamento, mentre negli uomini troviamo minore disponibilità a esplicitare il malessere e a chiedere aiuto. I dati riportati rappresentano le caratteristiche coerenti ai ruoli sociali di genere: introversione per le femmine ed estroversione per i maschi (Martin et al., 2013). Assodato che l’assunzione del ruolo legato al genere condiziona, risultano di particolare interesse strumenti quali il Conformity to Masculine. Norms Inventory che aiuta a valutare quanto e come ogni uomo aderisca alle norme convenzionali di genere (Mahalik et al., 2003). Esiste un recente interessante filone di studi su quanta influenza abbiano le norme sociali convenzionali, legate all’essere uomo e, tra queste, quanto spessore abbia la caratteristica di toughness (mostrarsi-tutto-d’un-pezzo) caratterizzata da un desiderio di nascondere il dolore e mantenere l’indipendenza, associata peraltro alla preferenza di non manifestare il proprio disagio interiore e nemmeno chiedere aiuto, ma aspettare per vedere se si riesce a risolvere la situazione senza rivolgersi a un/a professionista, un approccio definito wait-and-see, “aspetta-e-stai-a-vedere” (O’Loughlin et al., 2011) che lascia supporre esista – non si hanno ancora dati in merito - un consistente fenomeno di non-richiesta di aiuto in generale e di non-accesso ai servizi, in particolare. Anche se si sta sempre più affermando la convinzione che ci siano differenze di disordini psichici legati al sesso, e per alcune patologie psichiche questo pare risponda al vero (la psicosi gravidica post-partum ne è un esempio), non viene attribuita uguale attenzione all’influenza che può avere il ruolo di genere sul benessere/malessere psichico e sulla sua esplicitazione sociale. Spesso a livello popolare, ma anche nel mondo scientifico, ritroviamo l’affermazione che la depressione è manifestazione tipica della donna. Riecher-Roessler (2017) per esempio afferma che è noto (!) come le donne abbiano lungo il corso della vita una maggiore prevalenza di disordini dell’umore e di ansia, rispetto agli uomini, pur riconoscendo, nel contempo, una mancanza di ricerca sia in merito ai fattori eziologici sia sui meccanismi patogenetici. Kuehner (2017) nel chiedersi perché la depressione sia più comune nelle donne che negli uomini, auspica che una futura ricerca di prospettiva transdiagnostica possa contribuire a differenziare meglio le specifiche suscettibilità di maschi e femmine. Howard et al. (2017) sostengono che la ricerca sulla salute mentale, di per sé caratterizzata da sempre e in modo generalizzato da un approccio neutro in tutti i disegni di ricerca, presenta innumerevoli gender bias di struttura e di risultato che meritano studi analitici. Alla luce di queste considerazioni, è legittimo chiedersi se possiamo davvero sostenere che la depressione “è donna”. Analizziamo per sommi capi già solo un indicatore, che quantomeno farà riflettere: gli uomini italiani si suicidano tre volte più delle donne (ISTAT, 2012) e quasi l’80% dei morti per suicidio sono uomini, con un rapporto di genere (uomini/donne) che è andato aumentando linearmente nel tempo, passando da 2,1 nel 1980 a 3,8 nel 201112. Anche se non è appropriato ricondurre tutte le morti suicidarie a manifestazioni depressive, il fatto che rappresentino una parte consistente di manifestazioni depressive è convinzione condivisa in buona parte del mondo della psichiatria e della psicologia. Evans et al. (2011) hanno messo a punto un modello teorico per capire gli uomini e la loro salute. Lo stile “maschilista o patriarcale” rappresenta l’organizzazione di molte società caratterizzate da una diffusa stratificazione di genere, che privilegia gli aspetti naturali e biologici e un più generale sistema nel quale il potere è limitato a uomini adulti e viene perpetuata una struttura gerarchica legata da equilibri asimmetrici (Signani, 2013). Nel 2000 l’OMS prese in considerazione l’aspettativa di vita degli uomini, sistematicamente più breve rispetto a quella delle donne, ipotizzandola collegata a fattori legati al genere e al maschilismo. Molti studi confermano una maggiore propensione delle donne a preservare la propria e altrui salute, mentre la caratteristica maschilista dell’uomo, di essere più propenso a mettersi in situazioni di rischio fisico (sport o gesti pericolosi ed estremi) fin dalla giovinezza, e in età matura, con una minore attenzione ai pericoli, ma anche a sintomi e malesseri, si può considerare un fattore che determina salute o malattia. Un punto di vista ancora tutto da esplorare.

Conclusioni

Valutare il “peso” del genere, non solo nella salute e malattia, rappresenta davvero una sfida che apre sul mondo della metodologia della ricerca un punto di vista interessante, stimolante e identifica un filone di vera e propria ricerca di genere nella salute e nella malattia. Sarà necessario un complessivo ri-pensamento di strumenti e metodi, un’articolata e dettagliata mappatura dei punti critici e un approccio interdisciplinare, curioso di attingere ai saperi di diverse discipline, per scongiurare i gender bias insiti nella struttura stessa dei disegni di ricerca che compromettono risultati spesso contaminati da stereotipi negativi. È un percorso in divenire che richiede impegno e andrebbe rinforzato con intenzionalità scientifica e politica, volta al progresso della conoscenza e dell’equità.

Notes

1 Si pensi all’attribuzione di importanza mediatica, sociale e di potere ai calciatori maschi che guadagnano anche 75 milioni di euro l’anno (Lionel Messi e Cristiano Ronaldo, per esempio) a fronte di un massimo di 220.000 annui per una calciatrice, la brasiliana Marta Vieira da Silva, 5 volte pallone d’oro e da molti considerata il miglior talento femminile di sempre. Fonti: http://www.iltuosalario.it/main/stipendio/stipendiovip-politici/calciatori; http://www.sportbusinessmanagement.it/2015/07/compensi-e-stipendi-delle-calciatrici.html

2 Le donne che occupano i posti di più alto potere, Presidente di Stato, per esempio, sono solamente il 6% in tutto il mondo. Fonte: http://www.tpi.it/mondo/italia/donne-potere-mondo

3 Si è dovuti ricorrere alla categoria di “imprenditoria femminile” per tutelare le donne alla pari degli uomini e agevolarle nell’attribuzione di somme di denaro in prestito, necessarie per il lavoro.

4 Il concetto di gender bias è stato introdotto per la prima volta nel Rapporto Women and Health Research, dell’Istituto di Medicina degli Stati Uniti, pubblicato nel 1994, che descriveva le potenziali distorsioni nel disegno e conduzione degli studi clinici, che non tenevano nella dovuta considerazione gli effetti specifici di sesso e/o di genere. Da quel momento ha assunto un significato più generale di “errori o pregiudizi” dati dal fatto di non tener conto del genere (Signani, 2013).

5 Il prestigioso network globale di ricercatori, professionisti, pazienti, assistenti e persone (attualmente 37.000) interessate alla gestione della salute, in modo indipendente e libero da possibili conflitti d’interesse, affiliato al Campbell e Cochrane Equity Methods Group http://www.cochrane.org/about-us

6 https://genderedinnovations.stanford.edu/methods-sex-and-gender-analysis.html

7 L’unico provvedimento legislativo di cui si è al corrente è quello della Regione Emilia-Romagna (Delibera n.87 del 25 marzo 2014 “Norme per il riconoscimento e il sostegno del caregiver famigliare - persona che presta volontariamente cura ed assistenza) che riconosce al caregiver famigliare il ruolo di componente informale della rete di assistenza alla persona.

8 Il lavoro non retribuito include lavoro per la sussistenza (produzione alimenti ed abbigliamento; riparazione abbigliamento), lavoro domestico (far la spesa di casa, cucinare, lavare la biancheria, stirare, pulire, attività legate all’organizzazione della casa ed all’attribuzione dei compiti, commissioni come il pagamento di bollette e molto altro), cura della famiglia (cura di malati, vecchi e bambini) e servizi alla comunità o lavoro volontario (servizi offerti a persone non della famiglia attraverso organizzazioni religiose o laiche).

9 La ricerca “Uso del tempo e studi di genere” dell’ISTAT (2012) conferma un infelice primato italiano, quello del tempo impiegato in lavori domestici da parte delle donne, in tutte le fasi della vita, anche per l’adesione a standard di pulizia molto alti, la elevata attribuzione di importanza ai lavori domestici, e l’accettazione di forme di socialità tradizionali, che vedono gli uomini fuori casa, anche in orario extra lavorativo e le donne in casa. Situazione sociale che è forse una conseguenza della carenza di servizi di sostituzione del lavoro non remunerato. Le donne italiane sono occupate in lavori domestici per 12 ore settimanali quando vivono a casa con i genitori e fino a 51 ore settimanali se vivono in coppia e con figli piccoli. Gli uomini italiani sono impegnati al massimo 20 ore settimanali negli impegni domestici familiari e, anche quando hanno figli piccoli, risultano i meno occupati in casa rispetto agli uomini delle altre nazioni europee. Il 58,3% dei maschi italiani non cucina, il 73,5% non apparecchia né sparecchia la tavola, il 98,6% non lava né stira, il 70,5% non fa la spesa. Le donne italiane dedicano il 200% di tempo in più rispetto ai compagni all’accudimento di casa e famiglia (OECD, 2015).

10 http://www.sf-36.org/demos/SF-12.html

11 Al momento, la definizione di disordini depressivi rimane arbitraria per l’assenza di segni chiari, umiformi e riscontrabili da un osservatore (Piccinelli, Wilkinson, 2000). Con il termine “depressione” viene popolarmente denominato lo stato d’animo di umore depresso, perdita di interesse e piacere, riduzione dell’appetito, insonnia e problemi di concentrazione, difficoltà nel portare a termine i compiti richiesti al lavoro e ridotti contatti interpersonali. La depressione viene indicata nel linguaggio scientifico come “Disruptive Mood Dysregulation Disorder” e tiene conto anche di una gradazione di compromissione funzionale “maggiore” (Disturbo depressivo maggiore) quando gli episodi perdurano almeno due settimane. Per questo motivo, anche nelle indagini di popolazione, si fa riferimento a questo arco temporale (DSMV, http://www.dsm5.org/Pages/Default.aspx).

12 Istat (2012) I suicidi in Italia: tendenze e confronti, come usare le statistiche. http://www.istat.it/it/files/2012/08/nota-informativa-SUICIDI.pdf; Vichi M., Conti S. Salute mentale. Il fenomeno suicidario in Italia - Ufficio di Statistica, Cnesps-Iss www.epicentro.iss.it/temi/mentale/SuicidiItalia2014.asp

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Conflitti di interesse: l’autrice dichiara l’assenza di conflitti di interesse.